Lilli Casano Michele Tiraboschi Fondi interprofessionali da ripensare per una moderna organizzazione del mercato del lavoro

Nel nostro Paese si parla da tempo, e non di rado con eccesso di enfasi, della importanza della formazione continua. I dati e le analisi sulla partecipazione dei lavoratori a opportunità formative testimoniano, tuttavia. la grande distanza che ancora ci separa dalle migliori esperienze internazionali e dagli obiettivi fissati a livello comunitario. Rispetto alla formazione degli adulti e alle dinamiche dei sistemi di relazioni industriali una riflessione particolare merita, in questa prospettiva, la vicenda dei fondi interprofessionali paritetici per la formazione continua introdotti dalla legge n. 388 del 2000 e ora inclusi, dai decreti di attuazione del c.d. Jobs Act, nell’ambito della Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro (art. 1, d.lgs. n. 150/2015). Un riconoscimento importante eppure dal sapore formalistico e di principio se è vero che la riforma del mercato del lavoro promossa dal Jobs Act interviene in un contesto più ampio di progressiva marginalizzazione e riduzione delle risorse di questi enti (1) e, comunque, a dispetto del sostanziale isolamento dei fondi stessi, quantomeno sul piano dei meccanismi di cooperazione inter-istituzionale. Come documentato in recenti contributi, a cui si rimanda per approfondimenti (2), nel corso degli anni si è assistito a un progressivo ampliamento del numero dei fondi interprofessionali a cui non ha però fatto seguito un solido ancoraggio dentro i sistemi di relazioni industriali di riferimento. Sono in ogni caso pochi i fondi in grado di attuare, non solo per dimensione ma anche per professionalità e progettualità, strategie innovative e di avviare un progressivo radicamento nei territori dove emerge la domanda di nuove competenze e l’esigenza di riqualificazione del personale aziendale anche in chiave di gestione se non anticipazione dei fabbisogni espressi da imprese e mercato del lavoro. Il quadro, già deficitario, si è ulteriormente complicato col succedersi di interventi legislativi che hanno progressivamente ridotto risorse e margini di azione. Da ultimo con la legge n. 92/2012 che non solo assegna ai fondi un ruolo marginale nel nascente sistema nazionale di apprendimento permanente ma che, all’articolo 3, prevede anche la possibilità di farli confluire nei fondi di solidarietà bilaterali per il sostegno al reddito, sviandone totalmente le finalità, dal finanziamento della formazione continua alle politiche passive. I fondi interprofessionali rivestono d’altra parte un ruolo strategico su diversi fronti: per un verso, quello della formazione dei lavoratori occupati, tanto ai fini dell’inserimento nel contesto aziendale con inter-venti di formazione in ingresso, quanto ai fini dell’aggiornamento e dello sviluppo delle competenze professionali, quanto al fine di promuoverne la riqualificazione in casi di crisi aziendali e ristrutturazioni (3); per l’altro verso, quello della creazione delle condizioni di competitività e sviluppo per le imprese, nei settori economici e nei territori, cruciale in un moderno sistema di governo del mercato del lavoro, che non guardi solo alle carenze della offerta, ma anche alla qualità della domanda espressa dalle imprese. Il decreto legislativo n. 150/2015 interviene sulla disciplina dei fondi (in particolare agli articoli 3, 9, 11, 15 e 17) ma in una direzione che pare opposta rispetto alle esigenze di valorizzazione del loro ruolo di raccordo tra i mercati interni e i mercati esterni del lavoro. Da un lato, i fondi sono attratti nell’orbita ministeriale, soggetti alle linee di indirizzo triennali e agli obiettivi annuali in materia di politiche attive del lavoro che saranno emanati dal Ministero previa intesa in conferenza Stato-Regioni. Piuttosto che rilanciare la logica della bilateralità e della sussidiarietà, al fine di rispondere a un panorama di fabbisogni formativi sempre più differenziati e responsabilizzare le parti sociali, si è preferito dunque riaccentrare le funzioni di programmazione della formazione continua allontanandola dai luoghi della produzione e dai territori. Dall’altro lato, i fondi sono ora chiamati a contribuire a funzioni cruciali, quali la costruzione di un sistema informativo della formazio-ne professionale e il rafforzamento dei meccanismi di condizionalità nelle prestazioni relative ai beneficiari di sostegno al reddito in costan-za di rapporto di lavoro (4), senza che siano esplicitate le modalità con cui, in molti casi in assenza di strutture organizzative adeguate, possano svolgere tali funzioni, a maggior ragione alla luce di una ulteriore ridu-zione delle risorse disponibili. Merita attenta considerazione da parte della analisi scientifica, a questo riguardo, il dibattito sviluppatosi sulle pagine del Sole 24 Ore (5) a partire dalla proposta, avanzata da Marco Leonardi e Tommaso Nannicini (6), di fare un passo in avanti nelle politiche occupazionali e del lavoro. Il perché lo ha bene spiegato Maurizio Stirpe in un successivo articolo (7) di parziale apprezzamento e replica ricordando i punti qualificanti delle Proposte per le politiche del lavoro avanzate unitariamente da Confindustria e Cgil-Cisl-Uil nel corso del 2016 per il governo dei processi di transizione industriale e occupazionale. Giusto evitare, su cassa integrazione e tutele del lavoratore in caso di perdita del lavoro, la tentazione di un comodo quanto poco lungimirante ritorno al passato. Ma per far questo manca ancora, nel complesso quadro di leggi e riforme sul lavoro che si sono rapidamente succedute in questi anni, un effettivo salto di qualità rispetto alle tutele di nuova generazione – e cioè le politiche attive e di riqualificazione dei lavoratori – che restano larga-mente disattese nei processi reali. Bene, dunque, interventi tempestivi di formazione e ricollocazione dei lavoratori sin dalle prime avvisaglie della crisi d’impresa ma questo a fronte di tempi certi, su esiti e costi della riorganizzazione, che dipendono da una infrastruttura (anche tecnologica) di governo attivo del mercato del lavoro che ancora manca. La sfida della proposta di Leonardi e Nannicini – e la risposta nel merito ai dubbi avanzati dal vice presidente di Confindustria per il lavoro e le relazioni industriali – si gioca tutta qui e cioè nello sforzo di non relegare a vuoti slogan parole chiave come formazione, occupabilità, competenze. È dal protocollo Ciampi-Giugni del lontano 1993 che il nostro Paese cerca di dotarsi di un sistema formativo adeguato ai nuovi modelli d’impresa e alle sempre più frequenti transizioni occupazionali ma ancora non ci siamo riusciti e il continuo cambio di leggi certo non aiuta. Se il ciclo economico sarà clemente non torneremo forse più ai vecchi ammortizzatori sociali in deroga. E tuttavia già si intravede, lungo l’orizzonte delle riforme possibili, una nuova tentazione: quella del reddito di cittadinanza. Una scorciatoia vera e propria, a ben vedere, quantomeno rispetto ai complessi problemi causati dalla trasformazione tecnologica e demografica, che non risponde alla domanda delle impre-se di mestieri e percorsi formativi nuovi e tanto meno a una idea di lavoro inteso non come semplice reddito ma anche risposta a un bisogno essenziale della persona. Rispetto alle proposte via via avanzate non ci interessa il profilo, pure non secondario, di chi paga il costo della ricollocazione del lavoratore. Questa è materia di confronto tra Governo e parti sociali che sono chiamate a trovare un punto di convergenza rispetto al cuore del lavoro che cambia, e cioè le continue transizioni occupazionali, piuttosto che perdere tempo e fiducia reciproca in faticose contese muscolari sul piccolo segmento del lavoro occasionale. Per chi segue il tema della grande trasformazione del lavoro ci pare piuttosto centrale il ruolo da assegnare ai fondi interprofessionali per la formazione continua che sono il vero tassello mancante per un effettivo raccordo tra le politiche industriali e di sviluppo e un moderno sistema di relazioni industriali inteso come insieme delle regole dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro a partire dalla classificazione dei mestieri e dalla identificazione del loro valore di mercato. Assegnare ai fondi interprofessionali competenze non solo nella formazione degli adulti ma anche nella integrazione scuola-università-lavoro e nella ricollocazione dei lavoratori in esubero impone infatti non solo una piccola modifica normativa ma anche un coraggioso cambio di pa-radigma che ci pare coerente con la nuova geografia del lavoro che ha cancellato i rigidi confini che separavano primario, secondario e terziario: passare cioè da logiche verticali e di settore a percorsi di prossimità e di vicinanza ai territori e alle persone facendo delle competenze (e non della semplice tecnologia) il vero fattore abilitante di Industria 4.0 (8). Una sfida non da poco per il nostro sistema industriali e per il rinnovamento della rappresentanza tanto del lavoro quanto delle imprese perché contribuirebbe a porre al centro della contrattazione collettiva, come avvenuto recentemente nel contratto dei metalmeccanici, non più solo il tema redistributivo ma anche quello dell’adeguamento dei rapporti tra imprese e lavoratori ai nuovi modelli di produzione nelle catene globali del valore dove sono sempre più determinati gli hub della innovazione e i centri di competenza. In questa direzione il contributo del legislatore e della azione di governo potrebbe essere prezioso se giocato in chiave promozionale in termini di vere logiche bilaterali e partecipative, selezionando e riducendo di molto il numero dei fondi e facendo al tempo stesso non uno ma molti passi indietro rispetto alla ingerenza pubblicistica nella gestione e nel controllo burocratico dei processi formativi che non di rado replica inutilmente quegli schemi scolastici e d’aula che la moderna pedagogia suggerisce di abbandonare o quantomeno di ripensare radicalmente. Le soluzioni tecniche, in questa prospettiva, non mancano e dipendono unicamente da una reale volontà politica, del Governo come degli attori sociali, di scommettere sul lavoro del futuro invece che difendere quello del passato. Allo stesso modo, una efficace risposta alle trasformazioni in atto nel mercato del lavoro sarebbe individuare strategie efficaci per la inclusione dei lavoratori al momento non coperti dal sistema (come gli autonomi e i professionisti) oltre che investire con decisione nello sviluppo delle competenze necessarie per la quarta rivoluzione industriale in una logica trasversale ai settori. Di questi temi si interessa il presente numero monografico di Profes-sionalità Studi che si pone l’obiettivo di rivisitare in chiave scientifica il dibattito sui fondi interprofessionali e la progettualità legislativa del recente passato e del prossimo futuro. I contributi di Carlotta Valsega, Claudio Franzosi e Davide Premutico, Massimo Resce e Mario Vitolo, ricostruiscono, da diversi punti di vista, l’attuale quadro legislativo, istituzionale e statistico dei fondi interprofessionali in Italia, evidenziandone l’evoluzione delle strategie di intervento e presentando lo stato dell’arte e possibili scenari evolutivi. Ne emerge un quadro di luci ed ombre che suggerisce ulteriori approfondimenti a partire dalle analisi istituzionali fin qui condotte e a fronte delle nuove sfide da affrontare. I contributi di Arianna D’Ascenzo e Bruno Scuotto esplorano le recenti evoluzioni di due fondi bilaterali che rivestono una importanza strategica nel contesto italiano per la specificità delle logiche di azione e del target di riferimento (il fondo per la formazione nel settore della somministrazione, su cui si concentra Arianna D’Ascenzo) e per la indiscussa centralità nel sistema, tanto per numero di imprese e lavoratori aderenti, quanto per il profilo qualitativo degli interventi (Fondimpresa, di cui si occupa Bruno Scuotto). Il contributo di Giovanni Galvan affronta invece aspetti specifici delle regole di funzionamento dei fondi che sono al centro del dibattito e su cui si attendono importanti chiari-menti legislativi, al fine di superare incertezze che rischiano di pregiudicare il buon funzionamento del sistema. Chiude il fascicolo, nella sezione Osservatorio internazionale e comparato, il contributo di Josua Gräbener, che ricostruisce il dibattito francese sugli Organismes Pari-taires Collecteurs Agréés, organismi bilaterali assimilabili ai nostri fondi interprofessionali, facendo emergere temi centrali anche nel nostro Paese, con particolare riferimento alla natura delle risorse gestite dai fondi bilaterali e all’impatto delle scelte legislative sulla concezione stessa di formazione continua, e presentando altresì alcune recenti evoluzioni tra cui il Compte Personnel d’Activité. Il tema della importanza di un profondo rinnovamento delle politiche formative continuerà ad essere trattato nel prossimo fascicolo della rivista (9), che sarà dedicato nello specifico alla transizione dalla scuola al lavoro, partendo dall’analisi di uno degli strumenti più utilizzati (e più dibattuti) per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, e cioè il tirocinio.

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(1) Tendenze, peraltro, comuni ad altre esperienze nazionali e in particolare quella francese, storicamente identificata come modello in tema di paritarisme nel campo della formazione. Mentre si scrive, in Francia è in corso un acceso dibattito sulle proposte di riforma della formazione professionale del Presidente Macron, che vanno esattamente nella direzione di modificare profondamente la disciplina degli Organismes Paritaires Collecteurs Agrées settoriali. Si veda il contributo di J. Grabener in questo fascicolo.

(2) L. Casano, Il sistema della formazione: fondi interprofessionali, certificazione delle competenze, in M. Tiraboschi (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act. Commento sistematico ai decreti legislativi nn. 22, 23, 80, 8, 148, 149, 150 e 151 del 2015 e delle norme di rilievo lavoristico della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), Giuffré, 2016, 471-484.

(3) Cfr. M. Mascini, Dal fondo in poi: storie di rinascita in tempo di crisi, Il diario del lavoro, 2013.

(4) L’art. 22, c. 2 del d. lgs. 150/2015 prevede, infatti, che allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, ed in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio, il patto di servizio personalizzato possa essere stipulato sentito il datore di lavoro e con “l’eventuale concorso” dei fondi interprofessionali per la formazione continua.

(5) Il dibattito è stato ricostruito all’interno del Bollettino Speciale Adapt del 29 giugno 2017, n. 4, a cura di L. Casano, C. Valsega, Formazione continua: il tassello mancante per l’organizzazione del mercato del lavoro.

(6) M. Leonardi, T. Nannicini, Crisi aziendali, uno sguardo al futuro, Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2017.

(7) M. Stirpe, Avanti ma con esiti e costi certi per le imprese, Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2017.

(8) Si vedano i contributi raccolti nel precedente Fascicolo di questa rivista, Professionalità Studi Numero 1/I – 2017, Studium – Ed. La Scuola – ADAPT University Press.

(9) Professionalità Studi n. 3/2017, I tirocini a cinque anni dalla Legge Fornero: analisi, bilanci, prospettive.