Negli scorsi quindici anni le riforme pensionistiche sono state un pendolo, oscillante tra, da un lato, tentativi di favorire il pensionamento flessibile o anticipato per rispettare le scelte individuali, ringiovanire le forze di lavoro e dare slancio alla produttività e, dall’altro, ripensamenti, anche repentini, per consolidare i conti e sostenere la cassa. Questo pendolo deve esser fermato, perché non è pensabile intervenire sulle pensioni con questa frequenza senza generare sfiducia nei cittadini e confusione nel corpo normativo. Bisogna uscire da questa legge circolare di “eterno ritorno” e cercato un equilibrio che permetta di guardare al futuro.

E allora siano benvenuti correttivi alla riforma “Fornero”, ma purché provvisti del necessario collante tra flessibilità e governo della spesa. Questo collante non può che essere la responsabilizzazione individuale. Chi vuole esercitare l’opzione di andare prima in quiescenza, deve anche accettare assegni ridotti in base all’unico principio trasparente e oggettivo che si può mettere in campo: la neutralità attuariale tra le varie opzioni.

Questa è la sfida con cui misurarsi. Mettere a punto un meccanismo con cui ricalcolare le pensioni retributive (e le quote retributive delle miste) per far rispondere i loro importi allo stesso principio che presiede il calcolo contributivo nozionale “Dini”. Dopodiché, si può aprire alla flessibilità in uscita senza rischi di dover fare marcia indietro. Per ragioni di equità tra generazioni, lo stesso meccanismo andrebbe applicato alle pensioni già in liquidazione. Più amplia la platea su cui si riesce a correggere l’errore originario di calcolo (perché di questo si è trattato negli anni ’70 e ‘80), minore il sacrificio che si deve chiedere al singolo e più facile una positiva riforma strutturale.

Sullo sfondo di questa RN c'è il dibattito di questa fine anno 2014 su come modificare la riforma "Fornero" e permettere maggior flessibilità in uscita.

Ncs